Politica Agricola Comune e Green Deal Europeo – Facciamo chiarezza

Le variegate manifestazioni degli agricoltori in Europa hanno avuto il merito di mettere al centro del dibattito pubblico le politiche per l’agricoltura, tema per lo più trascurato dai media e della politica. Il problema, in Italia, è che il movimento di protesta, apparso privo di un coordinamento e di una chiara e univoca piattaforma di rivendicazioni, è stato da subito strumentalizzato da Salvini e Meloni in chiave antieuropeista per attaccare la Politica Agricola Comune (PAC) e il Green Deal e sviare così l’attenzione dalle responsabilità del governo, come lo stop all’esenzione Irpef per le imprese agricole e la riduzione dei contributi sulle polizze agevolate. Questa strumentalizzazione è stata facilitata dalla scarsa conoscenza, al di fuori degli operatori del settore, di cosa sia e come funzioni la PAC. Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza su una materia piuttosto articolata e complessa.

La PAC è dagli anni ’60 la principale politica comune dell’Europa con la maggiore dotazione di risorse. Per il periodo 2021-2027 sono stati stanziati 378 miliardi di euro, pari al 31% dell’intero bilancio UE, a cui si sono aggiunti 8 miliardi di euro del Next Generation EU più i fondi per l’agricoltura contenuti nei Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (altri 8 miliardi di euro per la sola Italia). Sono fondi che vanno a sostegno diretto del reddito e degli investimenti degli agricoltori, l’unico settore produttivo a disporre di questi aiuti.

La gestione di queste ingenti risorse è demandata agli Stati Membri attraverso i Piani Nazionali Strategici della PAC.  Il Piano Strategico italiano 2023-2027 dispone di 36,8 miliardi di euro di cui 28 da contributi UE e i restanti da cofinanziamenti nazionali e regionali.

Circa la metà di questi fondi (17 mld/€) sono destinati ai cosiddetti pagamenti diretti, ovvero un sostegno al reddito degli agricoltori attraverso aiuti per ettaro di superfice aziendale. Un pacchetto di 3,2 mld/€ va agli interventi di settore, concentrati soprattutto su vino e ortofrutta. I rimanenti 16 mld/€ finanziano le misure per lo Sviluppo Rurale che sono gestite dalle Regioni attraverso bandi pubblici. I bandi possono riguardare sia contributi in conto capitale per investimenti in azienda, dalle strutture ai trattori, che contributi a superfice legati ad impegni climatici ed ambientali quali ad esempio il biologico o la produzione integrata. Altre misure finanziate dallo sviluppo rurale sono l’insediamento dei giovani, le indennità per le aziende in zone svantaggiate, gli strumenti di gestione del rischio, la formazione e l’innovazione.

Nel complesso i soli pagamenti diretti in Italia incidono in media intorno al 15% del reddito aziendale, tenendo presente che vi è una forte variabilità in funzione delle regioni, della specializzazione produttiva e delle dimensioni delle aziende. I contributi europei della PAC sono quindi fondamentali a garantire sia la redditività delle aziende agricole che a sostenere gli investimenti necessari per ammodernarsi.

Il sostegno al reddito, oltre che con i pagamenti diretti, viene attuato anche con interventi finalizzati a migliorare la posizione degli agricoltori nella catena del valore della filiera agroalimentare. Una debolezza storica del settore agricolo è infatti la frammentazione dell’offerta che comporta una intrinseca debolezza contrattuale nei confronti dell’industria di trasformazione e della grande distribuzione organizzata (GdO), con prezzi riconosciuti che spesso non arrivano a coprire i costi di produzione. Questa disparità nei prezzi è stata una delle varie ragioni che hanno animato la protesta.

Gli interventi di settore della PAC sono finalizzati a rispondere a questa debolezza promuovendo l’aggregazione dell’offerta attraverso la creazione di Organizzazioni di Produttori (O.P.) che, mettendo insieme anche centinaia di piccole aziende, possono sviluppare politiche commerciali, investire in strutture comuni di stoccaggio e prima lavorazione, contrattare i prezzi con le centrali di acquisto della GdO o dell’industria di trasformazione, sviluppare ricerca e innovazione e fornire assistenza tecnica agli associati. I beneficiari dei contributi, in questo caso, non sono i singoli agricoltori, ma le stesse O.P. che devono presentare dei programmi operativi pluriennali con soglie minime di risorse da assegnare alla sostenibilità e alla ricerca.

Le organizzazioni di produttori possono poi consociarsi fra loro e con le industrie di trasformazione e creare delle Organizzazioni Interprofessionali (O.I.) che divengono organismi di garanzia e controllo per la programmazione delle produzioni e la contrattazione dei prezzi. Un caso di successo per la realtà di Parma è l’O.I. del pomodoro da industria Nord Italia.

Sempre per assicurare un maggiore valore aggiunto agli agricoltori, attraverso specifiche misure dello Sviluppo Rurale, vengono promosse la vendita diretta e le filiere corte, oltre che una serie di attività connesse, come l’agriturismo, le attività didattiche e sociali, che possono garantire una integrazione di reddito soprattutto per le piccole aziende nelle zone peri-urbane e in quelle collinari e montane.

Un’altra forma di sostegno al reddito garantito dalla PAC, sono gli strumenti di gestione del rischio e di stabilizzazione del reddito per fare fronte alle crisi di mercato e alle sempre più ingenti perdite di produzione legate al ripetersi di eventi climatici estremi o alla diffusione di fitopatie. Questi strumenti sono finanziati sia nell’ambito degli Interventi di settore che dello Sviluppo Rurale, dove sono stati stanziati quasi 3 mld/€.

Vi sono poi provvedimenti della UE al di fuori della PAC che, pur non erogando direttamente contributi, vanno nella direzione di sostenere e tutelare il reddito delle imprese agricole. Nel 2019 la UE ha aggiornato la direttiva per il contrasto alle pratiche commerciali sleali con nuove norme che, oltre ai consumatori, vanno anche a tutelare i produttori della filiera agroalimentare nei rapporti con le centrali di acquisto e la grande distribuzione. Sta però agli Stati Membri recepire le norme UE e controllare e intervenire sulle pratiche sleali, come le vendite sottocosto o le aste al doppio ribasso, attraverso i propri istituti di controllo, in Italia rappresentati dall’ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi (ICQRF).

La UE impone poi dazi e quote ai prodotti agricoli di importazione a protezione dei prezzi della produzione interna che scontano costi di produzione e standard ambientali più elevati. Tra le varie ragioni che hanno animato la protesta ci sono l’accordo commerciale con il Mercosur, che aprirebbe la strada all’importazione di prodotti agricoli a minore costo dai paesi del Sud America, e la sospensione dei dazi di importazione sui cereali provenienti dall’Ucraina, che ha suscitato forti opposizioni soprattutto in Polonia e Romania. Dal punto di vista dei consumatori le politiche protezionistiche non sono necessariamente un bene, ma è vero che, se si impongono alti standard ambientali e sanitari, ad esempio vietando l’utilizzo di determinati prodotti chimici, servono poi clausole di reciprocità per evitare di importare prodotti a minor costo che non rispettano i medesimi requisiti di sostenibilità e salubrità.

La disposizione europea forse più importante per l’agroalimentare italiano e ancor di più per la nostra Food Valley è la legislazione che istituisce e tutela i prodotti a denominazioni di origine (le famose DOP e IGP) che sono una peculiarità della UE. Senza queste norme europee, di recente aggiornate e rafforzate, non vi sarebbe un riconoscimento internazionale dei prodotti DOP e IGP e le tutele sul mercato interno e nei paesi terzi che la stessa UE garantisce con il suo peso commerciale.

Stiamo parlando di prodotti alimentari e vini prevalentemente vocati all’export, che fanno l’immagine dell’Italia e di Parma e che hanno avuto nel 2022 un valore alla produzione superiore ai 20 mld/€, pari al 20% del fatturato complessivo dell’agroalimentare italiano (solo a Parma 1,6 mld/€). Grazie al marchio e all’ombrello delle norme UE e a una forte integrazione di filiera garantita dei consorzi di tutela, i produttori della cosiddetta DOP Economy possono spuntare prezzi più alti e remunerativi rispetto ai prodotti alimentari non riconosciuti a denominazione di origine. Un esempio è il differenziale di prezzo tra il latte crudo e quello destinato alla produzione del Parmigiano-Reggiano. La UE sostiene poi economicamente la promozione sul mercato dei prodotti DOP e IGP con programmi annuali dotati di circa 200 M€.

Questo spettro di sostegni ed interventi messi in campo a livello europeo non può impedire in assoluto l’insorgere di problemi di redditività per le aziende agricole, di distribuzione del valore aggiunto ed equità dei prezzi legati a dinamiche di mercato. Ma di certo, senza le risorse e gli strumenti della PAC le condizioni economiche per molte aziende sarebbero insostenibili e un ritorno a politiche nazionali, in nome del sovranismo, sarebbe semplicemente catastrofico.

All’obiettivo originario e primario della PAC di garantire un equo reddito degli agricoltori e l’autonomia alimentare della UE si è affiancata nel tempo anche quello della sostenibilità ambientale e del contrasto ai cambiamenti climatici. Nell’attuale PAC 2023-2027 questi obiettivi (indicati nelle strategie del Green Deal e nella legge UE sul clima, oltre che nelle direttive di settore) sono perseguiti attraverso una serie di misure obbligatorie e volontarie che formano la cosiddetta architettura verde della PAC.

Ogni agricoltore beneficiario di pagamenti PAC è tenuto a rispettare i criteri di gestione obbligatori e ad applicare 9 standard di buone condizioni agronomiche e ambientali (BCAA) che riguardano la gestione dei suoli, la rotazione delle colture, la protezione delle acque e la tutela della biodiversità. A questi obblighi noti come condizionalità, si aggiungono misure volontarie di sostegno che rientrano in due categorie: gli eco-schemi, un premio aggiuntivo a cui sono destinati il 25% dei fondi dei pagamenti diretti (per l’Italia 4,4 mld/€); e gli interventi climatici e agro-ambientali dello sviluppo rurale gestite dalle Regioni attraverso specifici bandi (in Emilia-Romagna il 44% dei fondi, pari a 400 M€).

Una parte delle proteste degli agricoltori hanno riguardato alcune misure di condizionalità dei pagamenti, in particolare l’obbligo della rotazione delle colture, per garantire una buona gestione dei suoli, e quello di destinare il 4% dei terreni arabili a scopi non produttivi per favorire la biodiversità. Queste proteste sono state anche alimentate ad arte da fake news e strumentalizzazioni politiche in chiave antieuropea promosse da siti e account ascrivibili alla destra del governo, ad esempio il blog del giornalista Mediaset Nicola Porro. Sono circolati titoli del tipo “La Ue impone il dimezzamento dell’agricoltura in pianura padana”, “Ultima eco-pazzia: l’Emilia-Romagna paga gli agricoltori per non lavorare la terra” come se il regolamento PAC non si applicasse a tutta l’Europa e le superfici interessate non fossero una frazione minima di quella produttiva (il bando specifico dell’Emilia-Romagna riguardava alcuni millesimi della superfice agricola regionale per impegni volontari di riforestazione assunti in passato ben prima del Green deal).

Un tema di fondo da affrontare però c’è ed è quello del carico burocratico per le imprese agricole. Le misure di condizionalità sono buone pratiche fondamentali per tutelare la fertilità del suolo, la qualità delle risorse e i servizi eco-sistemici da cui dipende la stessa agricoltura. Il problema per un agricoltore che riceve i contributi è che non basta farle, cosa che di per sé ha già un costo, ma deve dimostrare di farle. Questo significa affidarsi ad un tecnico e sostenere oneri economici e di tempo lavoro che per aziende medio-piccole (quelle sotto i 10 ettari sono in realtà esentate) rischiano di essere superiori ai benefici derivanti dal pagamento diretto, che in Italia ha un valore base medio di 168,00 €/ettaro.

E’ bene però ricordare due cose: l’attuale riforma della PAC è stata concordata dagli Stati Membri e votata al Parlamento Europeo anche da chi ora la attacca, come il gruppo politico della Meloni che esprime per di più il commissario europeo all’agricoltura, il polacco Wojciechowski.

L’allocazione dei fondi e la definizione e gestione delle misure di intervento è nelle mani del Ministero all’Agricoltura che, in un quadro di regole e obiettivi comuni a livello europeo, opera comunque le sue scelte attraverso il Piano Strategico Nazionale della PAC. L’Italia, a differenza di altri Stati Membri, non ha ad esempio utilizzato l’opzione di mettere un tetto ai pagamenti diretti per le grandi aziende che beneficiano di più di 100.000 euro. La definizione degli eco-schemi, alcuni dei quali criticati per la loro difficile praticabilità, era di totale competenza degli Stati Membri, sia nel numero che nei contenuti. Se l’eco-schema sul benessere animale e l’antibiotico resistenza non funziona e non risulta conveniente per gli allevatori, nonostante siano stati stanziati 1,8 mld/€, il problema non è la UE, ma il Ministero e come lo ha concepito.

Se c’è una critica da fare all’attuale PAC è semmai una eccessiva nazionalizzazione che crea disparità competitive tra gli Stati Membri all’interno del mercato comune. Brandire la bandiera del sovranismo agricolo nazionale non aiuta nessuno, sicuramente non l’Italia che ha nell’export agro-alimentare uno dei suoi punti di forza. Lo si è potuto toccare con mano in Francia dove, in nome del sovranismo alimentare d’oltralpe, alcuni gruppi di agricoltori hanno distrutto carichi di prodotti agricoli provenienti dall’Italia e dalla Spagna.

Va poi ribadito che senza una transizione verso pratiche più sostenibili e più resilienti ai cambiamenti climatici non c’è futuro per l’agricoltura. La più grave minaccia per il reddito e le produzioni agricole viene dall’emergenza climatica. In Emilia-Romagna le più grandi perdite produttive degli ultimi anni (per valori di miliardi di euro) sono venute dal ripetersi di eventi climatici estremi (alluvione in Romagna, gelate tardive, siccità, trombe d’aria, grandine) e da malattie delle piante o infestazioni di specie aliene, come la cimice asiatica, connesse con i commerci internazionali e il cambiamento climatico.

Ridurre drasticamente le emissioni climalteranti in tutti i settori, compreso quello agricolo, è urgente e non più rinviabile. Così come sviluppare politiche di adattamento alle nuove condizioni climatiche, in particolare per quanto riguarda la gestione dell’acqua, e di gestione del rischio, tenendo presente che, per la frequenza degli eventi e l’entità dei danni, i premi assicurativi sono sempre più alti e in alcuni casi le compagnie non attivano nemmeno più le polizze.

L’agricoltura, insieme alla forestazione, è inoltre l’unico settore che può anche rimuovere la CO2, contribuendo all’obiettivo della neutralità climatica al 2050 attraverso il sequestro del carbonio nel suolo e nelle colture arboree. E’ in fase di adozione un regolamento europeo che consentirà alle imprese agricole di certificare e vendere sul mercato delle emissioni i crediti di carbonio generati dalle proprie pratiche agricole e forestali ricavandone quindi una remunerazione.

Le aziende agricole, in particolare quelle zootecniche, hanno a disposizione tutte le risorse per rendersi autonome dal punto di vista energetico attraverso la produzione di biometano (che consente anche di ridurre le emissioni di ammoniaca e valorizzare agronomicamente i reflui di allevamento), il fotovoltaico sulle strutture coperte e l’agri-voltaico, i cui impianti, oltre a produrre energia, possono contribuire anche a proteggere le colture da eccessiva insolazione, dalla grandine e da gelate tardive. Il PNRR italiano, sempre finanziato con fondi UE e conformato agli obiettivi del Green Deal, mette a disposizione per l’autonomia energetica delle aziende agricole 4,5 mld/€, di cui 1,1 per l’agri-voltaico.

L’altra grande emergenza ambientale è quella della perdita di biodiversità dovuta all’inquinamento e alle trasformazioni di uso del suolo che impatta sulla stessa agricoltura con il costane declino degli insetti impollinatori e il degrado dei servizi eco-sistemici, compresi quelli che garantiscono la fertilità dei suoli.  Per contrastare questo declino, le strategie europee dalla Terra alla Tavola (Farm to Fork) e quella sulla biodiversità hanno fissato una serie di obiettivi al 2030: riduzione del 50% dell’uso di pesticidi e di antibiotici negli allevamenti; riduzione del 50% delle perdite di nutrienti; almeno il 25% di superfice agricola coltivata a biologico e il 10% per elementi naturali e del paesaggio agrario, come siepi, boschi, aree umide. Sebbene non siano diventati obiettivi vincolanti (anche per l’affossamento al Parlamento Europeo del regolamento sull’uso sostenibile dei pesticidi, poi ritirato dalla presidente della Commissione Europea) rimangono target di riferimento per l’architettura verde della PAC.

Fertilizzanti chimici e pesticidi, oltre ad inquinare e porre potenziali rischi per la salute umana, sono molto costosi e dipendono da processi produttivi a forte consumo di combustibili fossili. Il caro energia conseguente all’invasione dell’Ucraina ne ha fatto ulteriormente lievitare i prezzi con pesanti ripercussioni sui costi sostenuti dalle aziende agricole che ne fanno uso. Ridurre se non azzerarne l’utilizzo attraverso la valorizzazione agronomica dei reflui zootecnici e degli scarti della filiera agro-alimentare, l’introduzione di colture azoto-fissatrici nelle rotazioni, l’utilizzo di tecniche di precisione, la diffusione di pratiche di produzione biologica ed integrata è nell’interesse del settore agricolo. E’ un passo ulteriore, insieme all’autonomia energetica, per affrancarsi dalla chimica e dall’industria del petrolio e avere un maggiore controllo sui propri mezzi di produzione, che è il vero sovranismo da perseguire per il settore.

L’agricoltura è stata per secoli il modello per antonomasia di economia circolare e ha solo da guadagnare a tornare ad esserlo sfruttando le tecniche e lo stato delle conoscenze attuali e una piena integrazione con la filiera agro-industriale. Perfino le plastiche utilizzate in agricoltura possono essere sostitute da biopolimeri degradabili prodotti a partire da scarti colturali o di trasformazione.

Certo non è né facile né immediato cambiare i modelli produttivi. Servono investimenti, cambi di pratiche, assistenza tecnica, formazione e serve anche tanta innovazione per mettere a disposizione alternative praticabili a prezzi competitivi, ad esempio nel campo dell’agro-ecologia, del bio-controllo, della selezione genetica e varietale o delle tecniche di agricoltura di precisione.  Anche su questo versante arriva un importante sostegno della UE con le ingenti risorse del programma europeo per la ricerca Horizon Europe, che ha una linea di intervento non a caso dedicata a cibo, bioeconomia, agricoltura e ambiente, e quelle messe a disposizione dalla stessa PAC per i sistemi di conoscenza e innovazione in agricoltura (AKIS).

Il green deal è quindi in realtà una grande e unica opportunità per rendere l’agricoltura sempre più avanzata, autonoma e sostenibile sul lungo periodo, non solo sul piano ambientale, ma anche economico e produttivo. La questione vera sono i tempi e modi e le risorse necessarie per accompagnare ed accelerare una transizione che, nei fatti, gran parte degli agricoltori hanno già da tempo avviato.

Mettere in discussione l’intera PAC, come fanno Lega e Fratelli d’Italia, per sviare le proteste ed attaccare l’Unione Europea e il Green Deal è un gioco pericoloso di cui rischiano di rimanere vittima per primi gli stessi agricoltori. A fronte di uno striminzito bilancio europeo inchiodato ai trasferimenti degli Stati membri pari a circa l’1% del PIL, crescono infatti le richieste di finanziamento e i fabbisogni per altre politiche e settori come l’energia, l’alta tecnologia, le infrastrutture, la difesa a cui si devono aggiungere gli interessi da pagare sul debito comune contratto per finanziare i Piani di Ripresa e Resilienza.

Senza nuove entrate autonome o un improbabile incremento dei trasferimenti degli Stati, la coperta diventa sempre più corta e nella discussione avviata dai governi per la definizione del prossimo Quadro Finanziario Pluriennale diversi stanno già pensando di andare a prelevare le risorse da chi ha il borsellino più grande, ovvero l’agricoltura. A qualcuno, magari proprio in reazione alle manifestazioni, potrebbe perfino venire in mente che il modo più rapido per semplificare la PAC è togliere tout court i pagamenti diretti, con tutto il corredo di regole di condizionalità e controlli, e dirottare i fondi su altri ambiti. Sarebbe la fine di molte aziende agricole e non può essere certo questa la strada da percorrere.

Al contrario se, in conformità ai Trattati dell’Unione, si vuole perseguire la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari della UE garantendo un reddito adeguato agli agricoltori e produzioni di qualità, sostenibili sul piano ambientale, sicure dal punto di vista sanitario e a prezzi accessibili per i consumatori, bisogna rafforzare l’impegno comune europeo, difendere le risorse per l’agricoltura e riformare la PAC per aiutare al meglio le imprese agricole nella indispensabile transizione ecologica e produttiva.

E’ sul come rendere la PAC più efficace rispetto agli obiettivi dichiarati e più semplice e “facile” per gli agricoltori che bisognerebbe confrontarsi, tenendo ben presente che la Politica Agricola Comune non è una cosa calata dall’alto dai grigi tecnocrati di Bruxelles, ma il frutto di un processo di co-decisione in cui i governi degli Stati Membri, insieme ai gruppi politici al Parlamento Europeo, svolgono un ruolo decisivo.

Nicola Dall’Olio

Co-portavoce Europa Verde Parma